100 Libri per conoscerci meglio (Itaca)

del 29 Luglio 2015

Da Itaca 29 Luglio

È un tardo pomeriggio di inizio estate, inondato da una luce dorata e radente, quello in cui incontriamo Francesco Bevilacqua, in occasione della recente uscita del suo ultimo libro Lettere meridiane, cento libri per conoscere la Calabria, con la prefazione della storica Marta Petrusewicz. Siamo andati a trovarlo nel suo buen retiro sulle colline di Lamezia. Una casa semplice, senza orpelli, immersa nei boschi di roverelle e di sughere, con un frutteto, un orto, una fornita biblioteca.

Lei ha cominciato a camminare – si autodefinisce “cercatore di luoghi perduti” – e a studiare la Calabria negli anni ottanta del secolo trascorso. Cosa stava accadendo allora?
Era in corso una vera e propria apocalisse culturale, per dirla con Ernesto De Martino, ossia la cancellazione sistematica di un ethos, di un modo di concepire il mondo e la vita. Nonostante Alvaro avesse già ammonito che dovevamo conservare quanta più memoria possibile della nostra civiltà. Ma si assisteva anche a epocali distruzioni del paesaggio calabrese, come andava denunciando da tempo Giuseppe Berto. Iniziai battaglie durissime contro gli scempi ambientali, con Italia Nostra e il WWF.

Dopo diciassette libri dedicati ai luoghi, al paesaggio, al rapporto tra uomini e luoghi, ora pubblica questo corposo e originale volume che ha intitolato Lettere meridiane, cento libri per conoscere la Calabria. Cominciamo dal titolo.
Sarà una coincidenza, ma esattamente 140 anni fa, nel 1875, usciva “Lettere meridionali” di Pasquale Villari, considerato il libro inaugurale della cosiddetta questione meridionale. Ma nel titolo c’è anche l’assonanza con il “pensiero meridiano” di Albert Camus e di Franco Cassano. Il sottotitolo, invece, è la spiegazione di ciò che il lettore trova nel libro: oltre al mio saggio introduttivo “Viaggio nell’ombra. Per un’idea della Calabria e dei Calabresi”, i commenti di 100 opere di narrativa, storia, geografia, scienze sociali, la cui lettura o consultazione può valere a conoscere realmente una regione negletta e, come ho detto, malfamata come la Calabria.

Sembra di capire che lei lamenta una scarsa conoscenza rispetto ai problemi della Calabria, o quantomeno un fraintendimento…
Aggiungerei la parola “pregiudizio”. Come per l’opinione pubblica europea dell’Ottocento la Calabria era la terra dei briganti e dei selvaggi, per i contemporanei la Calabria è la terra degli ‘ndranghetisti, del malaffare, dell’illegalità, del clientelismo, dell’assistenzialismo, dell’indolenza, dell’ignavia. Il che – intendiamoci – è parzialmente vero. Ma anche falso. Perché la Calabria e i Calabresi non sono un tutt’uno omogeneo e indistinguibile. E siccome, nell’epoca dell’informazione spazzatura, quel che conta è dare in pasto alla gente idee preconfezionate che servano al consumismo giornalistico, ecco che non conviene a nessuno (o quasi) ribaltare luoghi comuni e stereotipi. Così, della Calabria e dei Calabresi si “vendono” solo informazioni sulla ‘ndrangheta e sul malaffare. E i Calabresi – lo scrivo nel libro – sono i primi a offrire di loro stessi questa intellettualmente disonesta autorappresentazione.

Ci sono però anche quelli che magnificano l’identità meridionale, che rivendicano un qualche autonomismo, che dicono che il Sud e la Calabria sono vittime della storia.
Anche di quelli non mi fido. Non sopporto le “retoriche identitarie”, il decantare istericamente la grandezza della Magna Grecia, il lamentare la cacciata dei Borboni e il sacco del loro tesoro da parte dei Piemontesi. Io sono perché si studi, si legga, ci s’informi su testi attendibili, prima di aprir bocca sul Sud e sulla Calabria, sia che si tratti di meridionali e calabresi che, giustamente, vogliono valorizzare il buono che c’è ancora quaggiù, sia che si tratti di giornalisti e opinionisti forestieri che, altrettanto giustamente, vogliono stigmatizzare quel che non va, le ombre che i meridionali e i calabresi dovrebbero dissolvere.

Perché 100 libri? E come li ha scelti?
Cento era un numero convenzionale e nello stesso tempo il numero massimo che mi ero dato. Dovevo scrivere un libro non un’enciclopedia. La scelta è caduta su libri di facile lettura che tentassero di sciogliere i nodi più importanti della Calabria: la malavita organizzata, il come e il perché essa si sia manifestata così pervicacemente quaggiù piuttosto che altrove; il rapporto ambivalente e ambiguo dei calabresi con la memoria, con il territorio, con il paesaggio; il complesso d’inferiorità della civiltà contadina calabrese rispetto alla civiltà industriale del nord; la scarsa conoscenza della storia e della geografia regionali, pure ricchissime ed affascinanti; la straordinaria potenza evocativa della tanta buona narrativa che gli autori calabresi hanno saputo produrre, da Padula a Misasi, da Alvaro a Repaci, da La Cava a De Angelis, da Abate a Gangemi…

Per concludere, nel libro lei non si limita a raccontare la Calabria e i Calabresi, con le loro ombre e le loro luci, ma prova anche a disegnare un progetto per il futuro.
Io credo, in sintesi, che Calabria e Calabresi, avendo scavalcato a piè pari l’industrializzazione ed essendo stati catapultati dal pre-industriale al post-industriale, hanno l’occasione per abbandonare gli illusionismi dell’assistenzialismo, dello sviluppo etero-diretto, dei piagnistei. In questo mi ritrovo molto nei libri di Franco Cassano, Mario Alcaro, Vito Teti, Tonino Perna. Dovremmo cioè fare da soli quel che, in parte per colpa nostra, in parte per colpe di altri, non abbiamo fatto negli ultimi cento anni. Intendo dire, da un lato, che dovremmo riprendere tutte quelle attività tradizionali in cui eravamo bravi e rifarle con metodi adeguati ai tempi, dall’altro che dovremmo puntare su beni culturali e paesaggio, dall’altro ancora valorizzare la nostra grande tradizione di pensiero (penso a Cassiodoro, a Tommaso Campanella, a Telesio, a Gioacchino da Fiore, tutti divenuti di strettissima attualità anche a seguito della recente enciclica di Papa Francesco). Ma voglio dire anche che dovremmo finalmente diventare “adulti”, emanciparci da una sorta di eterna fanciullezza che attende l’arrivo di qualche padre premuroso ma anche padrone. Trovare, insomma, la strada verso l’auto-realizzazione, verso il nostro principio d’individuazione, per dirla con Carl Gustav Jung.

Tra disperazione e retorica
Quando si vive più a sud del Sud, occorre avere un’enorme pazienza, una compassione abissale, una passione profonda. Per i luoghi, per le cose, per gli uomini. Tutto questo io lo chiamo “oikofilia”, da oikos (casa) e philos (amico). Oikfilia è amicizia, amore per la propria “casa”, per i propri luoghi, per la “patria” intesa come luogo d’origine, come comunit. È orgoglio anti-retorico (ma invece pieno di salutare senso autocritico) di appartenere ad una terra. È impegno a conoscere la storia locale, la letteratura, la geografia, la demologia. È interesse per la sorte del territorio. I calabresi dovrebbero risvegliare nei loro figli, nei giovani, il desiderio di restare, di cercare una ragione per provare un senso di appartenenza, di reinventare vecchi mestieri e di crearne di nuovi. Senza attendersi nulla, ormai, dalla politica tradizionale. Facendo, invece, politica dal basso, offrendo agli altri il proprio, personale esempio virtuoso. Rifiutando ogni logica assistenzialistica, ogni piagnisteo, ogni autocommiserazione, ogni recriminazione. Lo aveva scritto in un suo articolo, nel 1962, Giuseppe Berto: “Secoli di miseria, di arretratezza, di abbandono, avevano fatto sì che il Mezzogiorno arrivasse fino a noi aspro e integro, dotato di una bellezza che oggi ha un valore incalcolabile, non solo dal punto di vista spirituale, ma anche da quello economico. Ci sarà sempre più gente che pagherà prezzi sempre più alti per avere un po’ di bellezza davanti e intorno qualche metro quadrato di solitudine”. Ai calabresi (e non solo a loro) mi piacerebbe dire, con Franco Cassano: “La chiave sta nel ri-guardare i luoghi, nel duplice senso di aver riguardo per loro e di tornare a guardarli”. Deve pur esserci, quaggiù, qualche pensiero che sta necessariamente nel mezzo: tra la disperazione della fuga, dell’abbandono, dello spaesamento, dell’immobilismo da un lato, e la retorica degli splendori perduti, delle lamentazioni, dell’indignazione ostentata, della richiesta di provvidenze dall’altro. È lo stare nel mezzo di chi non scappa, di chi fa il suo lavoro con dignità, di chi affronta le difficoltà di ogni giorno a viso aperto, di chi si impegna per il bene comune, di chi ama la propria terra, di chi ha voglia di capire, di chi cura la memoria, di chi ha rispetto degli altri, di chi vede la bellezza senza negare il brutto. Di chi pensa, insomma, con Carlo Levi, che il futuro ha un cuore antico. Di chi crede nel motto di Giustino Fortunato: camminare per conoscere, conoscere per amare. Di chi resta, anzi sta in Calabria. Ed è capace di un po’ di grazia, di un po’ di letizia, nonostante tutto.

Francesco Bevilacqua
dall’introduzione a Lettere meridiane
Rubbettino, 2015

Di Aurelio Badolati

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